Sarebbe di 223 miliardi di dollari il rischio economico di una violazione dei dati per le prime 100 aziende al mondo, questo secondo lo studio ‘Valuing Cyber Risk’, realizzato da Interbrand e Infosys. Non che ci fosse bisogno di ulteriori conferme, le notizie si susseguono ad un ritmo vertiginoso e durante il Summit Clusit il tema è stato affrontato sotto varie prospettive.

In Italia, aldilà della classifica delle prime 100 aziende al mondo, il danno non si discosta di molto, anche se di difficilissima quantificazione. Basti pensare al tempo necessario per il ripristino e la messa in sicurezza.

Per quantificare il rischio, gli analisti hanno identificato alcuni fattori chiave che, a seguito di un’eventuale “data breach”, causerebbero una perdita economica sul breve e medio periodo.

Non solo danni materiali

Tra questi, la presenza (reputazione del brand), l’affinità (coinvolgimento col brand), la fiducia.

Per il danno potenziale è stata utilizzata una metodologia proprietaria di Interbrand. Dal report emerge che alcuni settori, principalmente quello tecnologico, dei servizi finanziari e automotive, rischiano un maggiore impatto globale sul marchio per un attacco hacker.

Tuttavia, sono i brand del lusso e dei beni di consumo che dovrebbero fronteggiare una perdita maggiore in termini economici, in primo luogo la riduzione dell’utile netto. Valuing Cyber Risk ha anche quantificato il trend del rischio per singolo mercato. Ad esempio, quello per il segmento hi-tech è salito a 29 miliardi di dollari, ovvero il 53% dell’utile netto del settore nel 2020; i servizi finanziari rischiano 2,6 miliardi di dollari, circa il 52% dell’utile netto dello scorso anno; l’automobilistico 4. 2 miliardi di dollari, il 77% dell’utile netto; i beni di consumo 5 miliardi di dollari, il 114% del reddito netto. Il rischio del valore per i marchi del lusso è stimato in 2,4 miliardi di dollari, il 115% del reddito netto del settore nel 2020.